ANNUALI e PERENNI, tra idealismi e realtà (realtà al plurale :.)

ANNUALI e PERENNI, tra idealismi e realtà (realtà al plurale :.)

Questo post nasce dalla riflessione stimolata dalla lettura di un articolo intitolato “La permacultura e le piante perenni” che potete leggere qui www.permaculturaitalia.com/index.php?option=com_content&view=article&id=61%3Ala-permacultura-e-le-civilta-antiche&catid=12&Itemid=111

Spero che possa spingere tutti coloro interessati ad una ricca discussione che possa portarmi/ci nuovi stimoli e motivi per scardinare la parziale conoscenza individuale che ci caratterizza.

Premessa:

Quando si parla di colture annuali e più in specifico colture cerealicole annuali si dovrebbe conoscere l’argomento in maniera profonda ed aver sperimentato personalmente cosa significa la coltivazione delle stesse. Questo, per rispetto dell’incredibile lavoro di ricerca che da decenni è stato portato avanti da tecnici, studiosi ed agricoltori di tutto il mondo che si sono contrapposti all’approcio chimico-industriale di università, compagnie sementiere, della meccanizzazione agricola ed agrofarmaceutiche, genetisti, agronomi e così via.

La permacultura non è una scatola chiusa con delle metodologie che si possono utilizzare, è un approccio sistemico alla progettazione di sistemi produttivi rigenerativi e permanenti, non per forza perenni :.)    

La coltivazione non convenzionale di cereali annuali dà ampio sfogo alla creatività funzionale dell’agricoltore. Più si conosce il comportamento e la fisiologia di una determinata specie più potremo integrarla a sistemi sempre più resilienti e rigenerativi.

Basti pensare ai fantastici lavori portati avanti da ricercatori ed agricoltori come Salvatore Ceccarelli con la coltivazione di cereali in popolazione, Uwe Wüst con cereali in coltura mista ad officinali ed altre colture da seme e la minima lavorazione, John Jeavons con la superproduzione di cereali su microscala per uso familiare, Henri de Laulanie con il sistema di intensificazione del riso poi applicato al frumento ed altri cereali, Colin Seis  con il pasture cropping dove il suolo è sempre coperto da una coltre di vegetazione, Wes Jackson con la ricerca sui cereali perenni e chi più ne ha più ne metta.

La mia esperienza personale con la cerealicoltura mi ha portato a capovolgere il modo con cui la maggior parte dei tecnici, professori, permacultori e agricoltori convenzionali (e non) tendono a ragionare quando si parla di produzione di cereali.

Possiamo diminuire le lavorazioni in campo, possiamo aumentare la diversità di specie presenti, reintrodurre “genialate agronomiche perdute” quali la bulatura con trifoglio e l’uso di animali per la tosatura pro-accestimento, integrare le colture cerealicole annuali con quelle perenni in sistemi integrati agro-silvo-pastorali o agroforestali, remineralizzare invece di fertilizzare, ecc… ecc.. ecc…

L’unica parola che ricordo dalle lezioni di agronomia di parecchi anni fa è: depauperante. Il frumento è una coltura depauperante per il suolo. Sinceramente, in questi ultimi anni di sperimentazioni sempre più azzardate in campo, ciò che di depauperante è rimasto sono gli inutili giudizi di chi non vuol distaccarsi da una visione convenzionale dell’agricoltura. Se coltivati con ingenio i cereali possono migliorare le condizioni del suolo molto rapidamente e fornire enormi quantitativi di calorie utilizzabili per uomo e bestiame.    

Non si può generalizzare sui motivi dei presunti collassi delle civiltà dell’antichità,  semplificando quel che è stato il concatenarsi di una molteplicità di cause (per lo più spalmate durante un periodo di oltre 3500 anni).   

La coltivazione di colture cerealicole annuali non dovrebbe rappresentare una pratica degenerativa a priori. Ciò che rende così insostenibile la loro produzione sono le metodologie di coltivazione adottate dalla maggior parte degli agricoltori di tutto il mondo.

Relative location (posizione relativa) è forse il principio (originalmente non incluso tra i 12 principi di Holmgren)  più importante da tener conto nell’analisi di un agroecosistema o nella progettazione con metodologie permaculturali. La maggior parte delle grandi civiltà del passato si svilupparono a latitudini a clima per lo più temperato caldo, mediterraneo, subtropicali, desertico e semi desertico. Luoghi che per “Scala di Fragilità” (Savory brittleness scale) di Allan Savory vengono considerati da molto a gravemente fragili dal punto di vista della propensione al degenerarsi.

Questa caratteristica, unita alla diffusa pratica della coltivazione su suoli con un inclinazione superiore a 5-10° gradi furono due tra le maggiori cause per l’aumento dell’erosione con conseguente perdita di nutrienti per via della lisciviazione e scorrimento superficiale.

Un altro elemento poco comprensibile da molti è il problema della salinificazione dei suoli dovuta ad eccessive e prolungate irrigazioni; e questo, è forse stato l’elemento che ha contribuito maggiormente alla degenerazione di suoli di pianura dove l’erosione agiva in misura minore rispetto alle aree collinari o montuose.

Potrei citare molte altre cause della distruzione da parte degli uomini del passato di ecosistemi già fragili, tra queste è importante non dimenticarci la storia di Caino e Abele che  mostra l’antica diatriba tra pastori ed agricoltori. La pastorizia incontrollata di quei tempi ( e parliamo di un lasso di tempo di qualche migliaio d’anni) fu uno se non il motivo principale della devastazione di grandi porzioni di terra come parti del Nordafrica e la Mesopotamia.

Tornando al presente e all’analisi delle conseguenze della coltivazione di cereali, tra le pratiche degenerative di maggior importanza, non troviamo la lavorazione del suolo come prima problematica relativa alla degradazione degli ecosistemi.

L’uso spropositato ed inconsapevole di enormi quantitativi di azoto sintetico da parte degli agricoltori convenzionali (spesso oltre il 70% rispetto a quello necessario alla coltivazione) distrugge la struttura chimico fisica del suolo ad una velocità impressionante spesso per svariati anni a venire, inducendo alla lisciviazione di altri elementi nutritivi essenziali alla crescita delle piante e indirettamente, all’aumento della flora batterica del suolo con conseguente induzione alla crescita di piante spontanee nitrofile (guarda caso le erbacce meno desiderate nei campi di cereali).

Altra causa della distruzione della sostanza organica, struttura glomerulare del suolo e immobilizzazione di elementi nutritivi è l’uso di erbicidi, che agiscono come “fossilizzanti” della sostanza organica e della vita microbica.

Un’altra pratica sottovalutata anche da noi permacultori amanti delle case di paglia :.) è l’asportazione dei residui colturali (paglia), certo, poco ricca in nutrienti, ma una fonte insostituibile di fibra da reintegrare obbligatoriamente nel suolo per stimolare la riproduzione e crescita di microrganismi benefici e per favorirne la ri-strutturazione fisica. Per aumentare quest’effetto prediligere varietà di cereali antiche e specie che accestiscano maggiormente (capacità di produrre più steli dallo stesso seme) e che crescono più alte rispetto a quelle convenzionali (così producendo maggiori quantità di paglia). Oltre alla reintegrazione di fibra ristrutturante, all’aumento dell’infiltrazione dell’acqua, alla protezione del suolo da sole e precipitazioni, al riequilibrio del rapporto tra C/N, mantenere la paglia in campo (trinciandola e distribuendola in maniera omogenea) stimola l’aumento e riproduzione di funghi saprofiti che a medio lungo termine creano le condizioni per il supporto alla presenza di funghi micorizzici.    

Le pratiche da integrare a ciò che ho già esposto sono infinite, le tipologie di cereali con cui sperimentare moltissime (non ho nemmeno citato la differenza tra colture C3 e C4), i modi per rendere il suolo più coltivabile per diminuire la perdita di carbonio e nutrienti pronti per essere utilizzati, senza poi dimenticarci del cambiamento climatico, l’aumento delle fitopatologie e di quanto questi elementi rendano suscettibili tutte quelle colture con tempi produttivi più lunghi…    

Sono un amante dei sistemi agroforestali ibridi (tra perenni ed annuali) proprio perché in natura ciò che si può osservare è l’integrazione tra specie annuali, biennali, perenni, facoltative, ecc.. ed il livello di resilienza di un ecosistema è costituito dalla molteplicità degli input infusi nell’ambiente da parte di specie annuali tanto quanto perenni. Non fissiamoci in strani idealismi di cui la natura se ne infischia bellamente, il pensiero ecologico è oggettivo ed indiscutibile.